«Sogno di fare bene ai brand facendo bene alle persone»

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Intervista a Francesco Bozza, VP e Chief Creative Officer di Grey Italia e relatore di Reinventing, il grande evento dedicato all’innovazione nel mondo non profit promosso da Atlantis Company e in programma a Milano il 10 e 11 ottobre. 

 

«Mi piacerebbe tantissimo vincere il budget di una grande azienda per seguire la Corporate Social Responsability». Francesco Bozza, VP e Chief Creative Officer di Grey Italia e relatore di Reinventing – il grande evento dedicato all’innovazione nel mondo non profit promosso da Atlantis Company – ha più di 100 premi nazionali ed internazionali sulla scrivania e un sogno nel cassetto: rendere sempre più virtuoso il rapporto tra profit e non profit, due mondi che ha fatto spesso incrociare nel corso della sua carriera.

 

Il portfolio di Bozza è zeppo di brand stellari, ma il suo percorso professionale è stato caratterizzato anche da frequenti incursioni nel mondo del non profit: ha seguito campagne per Ai.Bi., Medici senza frontiere, Fondazione Veronesi e Forum Crisalide e, soprattutto, supportato la Corporate Social Responsability di una grande multinazionale. Un’esperienza, quest’ultima, che vorrebbe, appunto, ripetere.

 

Bozza, in particolare, ha collaborato per quattro anni con Samsung, seguendo campagne di grandissimo impatto legate ai delicati temi del cyberbullismo, della violenza sulle donne e dell’autismo. La campagna sul cyberbullismo è il frutto di una collaborazione tra Samsung e Moige nell’ambito della quale è stato lanciato un numero gratuito per sostenere le vittime del fenomeno. L’iniziativa è stata lanciata attraverso la campagna massiva #OFF4aDAY, nell’ambito della quale Samsung ha “spento” tutti i canali di comunicazione per un’intera giornata come gesto simbolico per informare sui rischi del bullismo online. «Sono stati addirittura spenti i televisori Samsung in esposizione in diverse catene di prodotti elettronici», ricorda Bozza. Un’attività massiva che ha dato molta visibilità alla campagna e soprattutto, in generale, al tema del cyberbullismo. La campagna contro la violenza sulle donne è stata, invece, promossa in collaborazione con Telefono Rosa al fine di sostenere il recupero psicologico delle donne che hanno alle spalle una storia di disagio sociale e familiare e facilitarne il reinserimento nella comunità e nel mondo del lavoro. Per promuovere l’iniziativa è stato realizzato uno spot shock ideato e interpretato personalmente dalle vittime di violenza e diretto da Flavia e Maria Sole Tognazzi. Il progetto legato all’autismo è stato invece sviluppato in collaborazione con PizzAut, un’associazione fondata nel 2017 con l’obiettivo di aprire la prima pizzeria in cui lavorano persone con autismo con il sostegno di terapeuti e professionisti della ristorazione, ed è sfociato nella realizzazione di una applicazione progettata e realizzata appositamente per consentire ai ragazzi di poter lavorare in pizzeria e raccogliere le ordinazioni in modo più rapido e agevole.

 

Bozza parteciperà a Reinventing – iniziativa fondata e ideata dal Ceo di Atlantis Company Francesco Quistelli e in programma a Milano il 10 e 11 ottobre – come relatore della plenaria “Creatività per bene: come nascono le migliori campagne di comunicazione sociale”.

 

Francesco Bozza, come vedi la comunicazione oggi e tra 10 anni?

«Meno comunicazione e più azione. Oggi sono i fatti a parlare, letteralmente. Azioni concrete (activation, eventi, stunt) da cui nascono campagne e non più viceversa. Sostenute dalla giusta amplificazione, sono in grado di generare conversazione nella vita digitale e reale. Oggi, come tra 10 anni».

 

Riassumi i nuovi trend della comunicazione in tre parole chiave

«Polarizzazione, sincerità e hackeraggio. Polarizzazione perché oggi essere divisivi paga, non si può piacere a tutti e neanche le marche possono: meglio prendere una posizione, dichiarare i propri ideali e la propria posizione culturale. O si ama o si odia, ma in ogni caso si esce dall’invisibilità. Sincerità perché mi piace la comunicazione schietta e senza maschere. La radical transparency, il coraggio di mostrarsi senza sovrastrutture, è la chiave della credibilità e affinità di un brand con le persone là fuori. Hackeraggio, perché il ribaltamento/alterazione di situazioni, contenuti già esistenti, media, brand concorrenti o addirittura del proprio brand è una leva capace di amplificare e trasformare in fenomeno culturale molte campagne».

 

Quali sono le reali potenzialità della Corporate Social Responsability e quali sono i segreti per una Csr davvero efficace?

«La Corporate Social Responsability non è soltanto un’occasione per fare qualcosa di utile per la società, ma anche un’opportunità incredibile per veicolare i valori di un brand. In un mondo ideale tutte le aziende dovrebbero avere dei progetti legati al non profit, perché la Csr, se ben fatta, è un win-win: permette alle onp e ai temi che affrontano di avere una visibilità mediatica che altrimenti non potrebbero mai avere ed è una grande occasione di comunicazione per le aziende, perché permette loro di portare il brand nel cuore delle persone. Ovviamente la Corporate Social Responsability va sempre fatta in maniera intelligente e delicata: non tutte le aziende possono fare qualsiasi cosa, ma ogni azienda ha un ipotetico progetto perfetto. Sarebbe davvero bello se tutte le aziende investissero energie in questo settore, che fa del bene alle persone ma anche alle marche.

In questo ambito anche le grandi agenzie creative hanno un ruolo centrale: possono favorire l’incontro tra profit e non profit trasformando i progetti dedicati al sociale in qualcosa di spendibile anche a livello di PR e quindi di attraente per aziende. Non basta, infatti, individuare il progetto di Csr giusto per la propria azienda, ma bisogna anche saperlo raccontare nel migliore dei modi. Lo storytelling, ad esempio, è sempre uno strumento molto efficace: se si associa il progetto ad un racconto coinvolgente, quando l’operazione viene presentata ai media la risposta dei giornalisti è molto più ampia e capillare.

Le grandi agenzie spesso si fanno già carico di “adottare” alcune associazioni per regalare loro strumenti di comunicazione efficaci. Ad esempio, io lo scorso anno ho lavorato per una piccola associazione milanese che si occupa di sostenere gli homeless durante i mesi invernali. In particolare, abbiamo presentato a questa onlus il progetto di un ragazzo che aveva brevettato un kit polifunzionale fatto completamente di cartone per dare agli homeless una poltrona, un letto e una valigia dove poter mettere le loro cose. Questa iniziativa ha permesso di puntare i riflettori sul problema, così nonostante l’associazione fosse molto piccola, il progetto ha avuto rilevanza in tutto il mondo».

 

 

Quali sono gli errori più comuni quando si sviluppa la comunicazione di un progetto legato al non profit?

«Non conoscere bene il problema che si vuole far emergere attraverso la campagna. Quando ci si avvicina ad un progetto legato al sociale bisogna avere una grande sensibilità e soprattutto un’ottima conoscenza del tema che si intende mettere in evidenza: se non si conosce il problema in maniera dettagliata è impossibile trovare una chiava creativa realmente centrata ed efficace. Ad esempio, nel corso della mia carriera ho sviluppato una campagna per Forum Crisalide, che si occupa di sostenere ragazze che soffrono di disturbi alimentari. In questo caso, per essere realmente efficaci è stato necessario conoscere nel dettaglio le specifiche patologie: solo questo studio preliminare ci ha permesso di capire che per cogliere l’anima del problema era necessario concentrarsi non in generale sui disturbi alimentari, ma sulle singole malattie. Nello spot realizzato per la bulimia abbiamo ripreso una ragazza che mangiava un piatto di pasta e poi mandato il video al contrario, ottenendo una metafora molto disturbante della patologia: si vedeva la pasta uscire dalla bocca della giovane e tornare sul piatto».

 

Come è cambiata, negli anni, la comunicazione dei progetti non profit?

«Una volta gli spot sociali erano l’ambito in cui i creativi potevano sfogarsi per produrre delle bellissime idee per un cliente facile. Non c’era un’organizzazione strutturata, fatta anche di ricerche, analisi e test. Oggi, fortunatamente, non è più così e in questa evoluzione ha inciso anche il fatto che gli standard degli award internazionali sono diventati molto più rigidi e dettagliati rispetto al passato. Attualmente vengono premiate solo le campagne che hanno realmente un senso e che dimostrano che l’agenzia ha realizzato un approfondimento preliminare serio, anche dal punto di vista dei risultati.  Un’altra grande differenza rispetto al passato riguarda gli strumenti di veicolazione: oggi una campagna non è più solo adv e spot, sono coinvolti anche tutti i canali digital e social.  L’ecosistema dei media è diventato molto più complesso».

 

Perché hai scelto di lavorare in questo settore?

La pubblicità è una mia grande passione da sempre. Alle medie, quando mi è capitato tra le mani il giornalino della scuola, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata che poteva essere uno strumento per promuovere le attività di professori e bidelli, così ho proposto e realizzato le mie primissime piccole campagne.  La fortuna di aver scoperto molto presto le mie inclinazioni mi ha permesso di fare scelte molto mirate a livello di formazione e la mia carriera ne ha tratto un grande vantaggio. Ho sempre visto la pubblicità come un lavoro che, se fatto in maniera seria e intelligente, aiuta la cultura di massa e la cultura popolare a progredire. Aggiungere il sociale a questo quadro permette di completare il panorama. Per questo amo molto la Corporate Social Responsability, che non è un’attività che pulisce la coscienza, ma una grande opportunità di sviluppo sia per il profit che per il non profit.

 

Qual è il tuo motto?

Una frase di una canzone di Luca Carboni, che, quando ero ragazzino, era il mio mito e che poi, in seguito ad una collaborazione, è diventato anche un mio amico: “Contro la noia della tv, guardare solo la pubblicità”. Riflette bene l’idea che la comunicazione pubblicitaria, quando è fatta bene, può essere un elemento molto divertente della televisione, persino più divertente dei palinsesti.

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